L’approccio adottato dalla direttiva non sembra essere il migliore. Almeno non per i segnalanti. La legge europea sul whistleblowing richiede un certo grado di probabilità sulla veridicità delle informazioni e sulla portata materiale della direttiva al momento della segnalazione da parte del segnalante. La direttiva non prevede una presunzione confutabile che questa condizione sia soddisfatta fino a prova contraria. Questo pone l’onere della prova a carico del segnalante in quanto parte debole del procedimento, il che aumenta significativamente il suo rischio legale.
La legge sul whistleblowing non definisce lo standard legale dei “motivi ragionevoli” e lo lascia alle leggi nazionali. Inoltre, questo non è l’unico standard legale applicabile alla condizione. In particolare, le informazioni sulla violazione, a cui si riferisce la condizione discussa, sono definite all’articolo 5 come informazioni che comprendono ragionevole sospetto, su una violazione effettiva o potenziale, che si è verificata o è molto probabile che si verifichi. Non è chiaro perché questa definizione utilizzi il termine “ragionevole sospetto”, mentre l’articolo 6 richiede “ragionevoli motivi” al richiedente. Questi standard giuridici possono avere un significato molto diverso in alcune legislazioni nazionali, il che sicuramente aumenterà la confusione.
Certamente, però, non tutte le segnalazioni con un grado di probabilità inferiore ai “ragionevoli motivi” (né ai “ragionevoli sospetti”) richiesti devono necessariamente essere equiparate a segnalazioni intenzionalmente errate e fuorvianti. Se si intende per segnalanti in buona fede tutti coloro che non presentano intenzionalmente segnalazioni errate e fuorvianti, la direttiva divide apparentemente i segnalanti in buona fede in due ulteriori gruppi. Quello con più e quello con meno buona fede. La distinzione è tutt’altro che insignificante, poiché da essa dipende la protezione contro le ritorsioni. Oltre ai segnalanti intenzionalmente scorretti, anche i segnalanti in “scarsa” buona fede che non riescono a dimostrare un sufficiente grado di probabilità della veridicità delle informazioni al momento della segnalazione non potranno avvalersi delle misure di protezione contro le ritorsioni. Inoltre, anche il fatto che le violazioni segnalate si rivelino fondate non consentirà ai segnalanti in “minore” buona fede di accedere alle misure di protezione. La situazione opposta, in cui il segnalante in “maggiore” buona fede riferisce informazioni che poi si rivelano false e gode comunque di protezione, sembra molto meno rilevante.
Invece della condizione positiva prevista dall’articolo 6 della direttiva UE sugli informatori, potrebbe essere più appropriato definire il dolo come una condizione negativa per fornire la protezione contro le ritorsioni.. Analogamente a quanto previsto dall’articolo 23 (2), che prevede sanzioni per le persone segnalate qualora si accerti che hanno consapevolmente riferito informazioni false, il diniego di protezione potrebbe essere definito alla stessa condizione. Questa soluzione sarebbe più semplice e comporterebbe meno rischi legali per i soggetti dichiaranti, mentre l’obiettivo indicato nel considerando 32 sarebbe comunque raggiunto. Gli Stati membri possono comunque introdurre questa soluzione nelle loro legislazioni nazionali, in quanto si tratta di una disposizione più favorevole ai diritti delle persone segnalate.